Intelligenza Artificiale e Survey aziendali

Quando l’anonimato non è poi così anonimo

Una multinazionale del settore medico decide di lanciare tra i propri dipendenti europei una survey sul work-life balance. Un progetto pensato per ascoltare le persone, misurare il clima aziendale e migliorare l’equilibrio tra vita e lavoro — che nasconde delle insidie che lo rendono potenzialmente rischioso da un punto di vista privacy.

Per raccogliere e analizzare i dati, l’azienda sceglie di affidarsi a un fornitore extra UE, che utilizza algoritmi di intelligenza artificiale per processare i risultati. La survey, pur essendo facoltativa, raccoglie vari dati come genere, età, area geografica, ruolo e anzianità aziendale, e promette l’anonimato.

Ma siamo proprio sicuri che sia così?

Grazie all’intelligenza artificiale, il fornitore è in grado di combinare le risposte con informazioni interne all’azienda— organigramma, e-mail, messaggistica interna — arrivando così a identificare con buona approssimazione il profilo del singolo dipendente.

Di fatto, dunque, l’anonimato non esiste più.

È a questo punto che sarebbe opportuno coinvolgere il DPO, per valutare rischi, adempimenti e rispetto dei principi di privacy by design e by default, garantendo la conformità al Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR).

Quali le questioni rilevanti da verificare

Dietro un progetto di questo tipo si nascondono diversi punti di attenzione:

  1. Anonimato solo apparente
  2. Valutazione dei rischi
  3. Liceità e minimizzazione dei dati
  4. Ruolo del fornitore cloud/AI
  5. Trasferimento extra UE

Quando l’anonimato non basta

Il primo passo è comprendere che, anche se i dati sembrano anonimi, la possibilità di re-identificare gli interessati li rende, a tutti gli effetti, dati personali. E questo cambia completamente lo scenario: il trattamento diventa soggetto a tutte le regole del GDPR, inclusa la necessità di verificare liceità, minimizzazione e proporzionalità (art. 5).

L’azienda deve quindi chiedersi:

  • sono davvero necessari tutti i dati raccolti per raggiungere la finalità dichiarata?
  • il sistema di AI elabora solo dati aggregati o entra nel merito dei singoli profili?
  • per quanto tempo le informazioni resteranno conservate?

L’art. 32 del GDPR impone inoltre di garantire la sicurezza del trattamento, cioè adottare misure tecniche e organizzative proporzionate ai rischi. Nel caso in esame, la possibilità di incrociare le risposte con altri archivi aziendali aumenta il rischio per i diritti e le libertà dei dipendenti, rendendo necessario un approccio prudente e strutturato.

La valutazione d’impatto: un passaggio obbligato

Quando un trattamento può generare un rischio elevato — come accade con l’uso di tecnologie innovative o con attività che comportano profilazione o monitoraggio — l’art. 35 del GDPR impone di condurre una valutazione d’impatto (DPIA). La DPIA serve non solo a misurare il rischio, ma anche a documentare come l’azienda lo ha gestito e ridotto.

È un vero strumento di accountability (art. 5, par. 2): dimostra che il titolare del trattamento ha pianificato, controllato e motivato le proprie scelte.

Nel nostro caso, la valutazione d’impatto dovrebbe includere:

  • l’analisi della tecnologia AI impiegata;
  • la possibilità di inferenza e re-identificazione;
  • le misure tecniche adottate per ridurre i rischi;
  • la valutazione del trasferimento dei dati verso Paesi extra UE.

Il ruolo del fornitore e il trasferimento dei dati extra UE

Il fornitore che elabora le informazioni per conto dell’azienda deve essere qualificato come responsabile del trattamento (art. 28 GDPR). Non basta fidarsi: occorre valutarne l’affidabilità, richiedere documentazione, compilare un questionario di due diligence e formalizzare la nomina contrattuale con istruzioni chiare, misure di sicurezza e divieti di utilizzo autonomo dei dati.

Essendo il fornitore situato fuori dall’Unione Europea, l’azienda deve inoltre verificare che il trasferimento internazionale dei dati avvenga nel rispetto degli artt. 45 e 46 del GDPR. Ciò implica controllare se esista una decisione di adeguatezza per il Paese interessato o, in mancanza, adottare clausole contrattuali standard e misure supplementari per garantire un livello di tutela equivalente a quello europeo.

Cosa dovrebbe ricordare l’azienda

Questo caso mette in luce un principio spesso trascurato: anche un progetto con finalità positive può trasformarsi in una violazione se non vengono considerate le implicazioni reali del trattamento.

Perché:

  • “anonimo” non significa “fuori dal GDPR”;
  • se c’è la possibilità di risalire a un individuo, anche indirettamente, il dato è personale;
  • l’uso di intelligenza artificiale richiede sempre una valutazione d’impatto accurata;
  • i fornitori cloud e AI vanno scelti e monitorati con criteri di responsabilità condivisa;
  • il trasferimento extra UE non è un passaggio tecnico, ma un obbligo giuridico con regole precise.

L’approccio corretto passa sempre da una serie di passi operativi, organizzativi e tecnici, e da una documentazione costantemente aggiornata nel tempo.

La conformità non è uno stato, ma un processo continuo.

Trascurare questi aspetti può costare caro.

In conclusione

Dietro ogni innovazione tecnologica si nasconde un equilibrio delicato tra efficienza e tutela. Nel momento in cui deleghiamo a un sistema di AI la capacità di analizzare dati “anonimi”, stiamo già spostando il baricentro della responsabilità.

La domanda da porsi, prima ancora di lanciare una survey o un progetto analogo, è semplice ma decisiva:

“Siamo davvero sicuri che stiamo noi governando i dati… o stiamo solo affidando la nostra fiducia a un algoritmo?”

 

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